Nome
Santa Cristina di Bolsena
Titolo
Martire
Nascita
III Secolo - Bolsena
Morte
III Secolo - Bolsena
Ricorrenza
Radio Vaticana
Radio Maria
Radio Rai
Patrono di
Protettore
In breve

Santa Cristina di Bolsena, nota anche come Cristina di Tiro, è venerata come martire della Chiesa cattolica. Nata in una famiglia nobile, suo padre era il governatore romano della città. Cristina si convertì al cristianesimo in giovane età, cosa che scatenò l'ira del padre che cercò di farla rinunciare alla sua fede attraverso torture e carcere. Secondo la tradizione, venne miracolosamente salvata in diverse occasioni: una volta le frecce scagliate contro di lei si ritorsero contro gli arcieri, un'altra fu gettata in un lago con una macina al collo ma non affondò. Infine, Cristina subì il martirio per decapitazione. Le sue spoglie riposano nel Reliquiario del braccio di Santa Cristina nella Basilica che porta il suo nome a Bolsena. La sua festa si celebra il 24 luglio. La storia di Santa Cristina è un esempio di coraggio e fede incondizionata, che continua a ispirare fedeli in tutto il mondo.

A Bolsena un celebre santuario conserva le reliquie di una fanciulla martirizzata che ha ispirato una festa singolare, i Misteri di santa Cristina, quadri viventi dove si rappresentano gli episodi più popolari della sua vita 

Ogni anno, la sera del 23 luglio, si spengono le luci sul sagrato della chiesa di Santa Cristina a Bolsena. Al suono delle campane esce la «macchina» in forma di tempietto con una statua in cartapesta di Antonio Malocore, decorosa opera di artigianato contemporaneo: ha sostituito dal 1991 la bella statua quattrocentesca in legno policromo di maestro senese, che raffigura la martire in veste blu trapunta di gigli d’oro, con la mano destra che sorregge al petto la freccia mentre il braccio sinistro scende morbidamente sui fianchi e la mano sostiene un libro e parte della veste. L’antica statua processionale, che si stava deteriorando, è custodita in chiesa, da cui non esce più per evitare urti e danni durante il trasporto. Contemporaneamente sulla destra del sagrato si apre il sipario di un palchetto illuminato dove un quadro vivente rappresenta silenziosamente una scena del martirio. Così cominciano i «Misteri di santa Cristina», la singolare processione in onore della patrona che si avvia per le strade del paese fermandosi ogni volta che giunge su una piazza dove su altri palchetti si raffigurano le scene più popolari della leggenda. Il simulacro della santa, seguito da una folla effervescente, che spesso corre per non perdere una scena, entra infine nella chiesa del Santissimo Salvatore, in cima al paese, dove rimarrà per tutta la notte. La mattina seguente, festa di santa Cristina, ripercorrerà il tragitto della vigilia all’inverso, accolta nelle cinque piazze da nuovi episodi fino all’apoteosi finale, «morte e gloria», sul sagrato del santuario.

Nei «Misteri» gli «attori» stanno muti e immobili o al massimo compiono qualche movimento. Quei quadri viventi deriverebbero probabilmente da una tragedia di Alessandro Donzellini, Tiria o Tragedia della Santa Christina, rappresentata nel 1583 e poi ridotta in quadri viventi forse per permettere alla popolazione di interpretarla senza una specifica preparazione drammatica. D’altronde i «quadri viventi» tratti da episodi della Sacra Scrittura o da Vite di santi non erano una novità: fin dal XIII secolo erano condotti in processione, come avviene ancora oggi nei «Misteri» di Campobasso, che sfilano nel giorno del Corpus Domini, mentre a Bolsena sono fisse stazioni. Quelle rappresentazioni mute e immobili erano conosciute sul lago: «... sappiamo che in centri vicini a Bolsena, come Montefiascone e Gradoli», scrive Marcello Moscini in Cristina da Bolsena. Culto e iconografia (Bolsena 1991) «nel XVI secolo si rappresentava, sotto forma di Mistero, il martirio di santa Margherita d’Antiochia e di santa Maria Maddalena nei giorni 20 e 22 luglio. Anche Viterbo allestì sontuose rappresentazioni mute e immobili nella processione del Corpus Domini, alla presenza di Pio II Piccolomini nel 1462».

Dagli scavi condotti fra il 1880 e il 1881 nella grotta si è accertato che fin dal IV secolo Cristina era venerata come martire in un oratorio sotterraneo intorno al quale si è poi costruito l’attuale santuario. Nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna (VI secolo) era raffigurata tra le martiri italiane benché alcune Passiones greche sostenessero che fosse nata a Tiro in Fenicia. Ma si tratta di un errore dovuto al fatto che la prima Passio di santa Cristina fu redatta originariamente in Egitto con inesattezze geografiche che si riscontrano anche in altri testi coevi. Non è da scartare un’ipotesi avanzata nel secolo scorso secondo la quale un’abbreviazione in Tyr, per indicare la terra degli Etruschi, chiamati Tirreni dai Greci, sia stata interpretata da qualche distratto redattore come Tiro di Fenicia. Quella Passio, di cui possediamo un frammento pervenutoci in un papiro egiziano del V secolo, fu probabilmente ampliata e ambientata a Bolsena da quella latina, non anteriore al IX secolo, il cui valore storico è quasi nullo. C’era una volta – vi si narra – una fanciulla di nome Cristina che il padre, magister militum di Bolsena, aveva rinchiuso con dodici ancelle in una torre perché venerasse, vergine per sempre come una vestale, i simulacri degli dei. Ma l’undicenne Cristina, che in cuor suo conosceva già il vero Dio, si era rifiutata di onorare le statue e dopo una visione angelica le aveva spezzate. Dopo averla supplicata invano di tornare alla fede tradizionale il padre l’arrestò condannandola nel suo tribunale a una serie di supplizi, tra cui quello della ruota sotto la quale ardevano le fiamme.

Ricondotta in carcere Cristina venne guarita miracolosamente da tre angeli scesi dal cielo. Il padre, esasperato da tanti prodigi e dalla sua ostinazione, la condannò all’annegamento facendola gettare nel lago con una pietra al collo; ma gli angeli la salvarono sostenendo la pietra e permettendo alla fanciulla di galleggiare sulle acque. Fu proprio allora che il Cristo, esaudendo la sua preghiera, la battezzò facendo scendere sul suo capo una nube purpurea.

Il malvagio genitore non riuscì a resistere al nuovo miracolo e, affranto, morì fra atroci tormenti mentre i diavoli lo afferravano per condurlo all’inferno.

Ma il dramma di Cristina è appena cominciato: il successore del padre, Dione, la sottopone invano alla flagellazione, la fa gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio da cui la fanciulla esce indenne, le taglia i capelli per poi trascinarla nuda per le vie della cittadina. Infine la conduce al tempio d’Apollo per farle adorare il dio: ma lei con uno sguardo fulminante fa addirittura cadere il simulacro riducendolo in polvere.

Anche Dione muore e gli succede un certo Giuliano che continua la sadica opera dei predecessori gettando la fanciulla in una fornace da cui lei esce illesa. Nel medioevo quella fornace, che i bolsenesi chiamano Fornacella e si trova a circa due chilometri a sud del paese, in un appezzamento di terreno tra la Cassia e il lago, dove vi è da qualche anno un ristorante, venne inglobata in un oratorio campestre più volte ampliato e restaurato. Nei pressi dell’oratorio vi è anche una fonte alla quale i devoti attingono perché avrebbe poteri taumaturgici.

Cristina sembra indomabile. Allora Giuliano decide di esporla ai morsi delle serpi che invece ne leccano il sudore, ne succhiano dolcemente le mammelle e infine si rivoltano contro il serparo della Marsica che le aveva scagliate su di lei uccidendolo. Ma la fanciulla, impietosita, intercede per il poveruomo che resuscita convertendosi al cristianesimo. Questa scena, come le precedenti, è obbligatoria nei «Misteri» che tuttavia sono meno realistici della leggenda: vi sono, sì, le serpi ma innocue, e la fanciulla che impersona la martire è pudicamente vestita fino ai piedi. L’episodio, che sembra frutto della fantasia popolare, è probabilmente l’indizio di un’operazione sincretistica che ha attribuito anticamente alla martire funzioni di una dea venerata in quei luoghi, una Mater Magna. Non casualmente il serparo è un marsicano, e si sa che i Marsi, i serpari per eccellenza dell’Italia centrale, adoravano la dea Angizia, cui erano sacri i rettili.

Anche le serpi dunque si oppongono alla volontà di Giuliano che, esasperato, ordina di tagliarle le mammelle, come a sant’Agata, e di mozzarle la lingua, che l’indomita fanciulla scaglia contro il persecutore accecandolo. Infine gli arcieri – altro quadro fisso – la trafiggono; e lei muore colpita da due frecce, come il «frecciato» Sebastiano.

Reliquie della martire, il cui nome latino, Christina, insorto con il primo cristianesimo, significa «consacrata a Cristo», sono conservate in una teca della basilica dei Santi Giorgio e Cristina dal 1880, quando vennero ritrovate nel suo sarcofago, all’interno della grotta-santuario adiacente. Ma secondo un racconto desunto dall’officiatura della chiesa di Sepino, una cittadina molisana in provincia di Campobasso, due pellegrini diretti in Terrasanta trafugarono le reliquie nel 1098. Giunti a Sepino, non riuscirono più a lasciare la città con il loro sacro carico, che dovettero donare agli abitanti. Così sarebbe sorto il culto della santa a Sepino dove è vivo ancora oggi nella chiesa a lei dedicata che conserva tuttavia soltanto più un braccio perché le altre reliquie sarebbero state a loro volta traslate a Palermo tra il 1154 e il 1166; tant’è vero che santa Cristina, diventata patrona della città siciliana prima della «scoperta» del corpo di santa Rosalia, veniva festeggiata sia al 24 luglio che al 7 maggio, considerato l’anniversario della traslazione. A Bolsena tuttavia altre tradizioni sostengono che i due pellegrini, inseguiti dai bolsenesi, furono costretti ad abbandonare le reliquie o una parte di esse durante la fuga. Vi è tuttavia un particolare significativo: il sarcofago ritrovato nel 1880 era rotto nella sua faccia posteriore per frattura violenta: al suo interno vi era un’urna di marmo bianco che conteneva delle ossa di una fanciulla tra gli undici e i quattordici anni. Quelle ossa sono autentiche o meno? Se lo fossero si potrebbe concludere che parte delle reliquie restarono a Bolsena, parte andarono a Sepino da dove furono traslate a Palermo, tranne un braccio. Invece sappiamo con certezza che nel 1084, cioè quattordici anni prima del furto, Matilde di Canossa, accompagnata da Gregorio VII, si era recata sull’isola Martana per riportare a Bolsena le sue reliquie spostate nel primo medioevo in un luogo che le preservasse più facilmente dalle scorrerie di barbari e Saraceni.

A Sepino la santa, che è raffigurata in un prezioso busto argenteo, con palma del martirio e fiori nella mano sinistra e nella destra un modellino della città, riceve un culto straordinario, tant’è vero che è festeggiata non soltanto al 24 luglio, sua festa liturgica, con una solenne processione, ma anche al 6 gennaio con l’esposizione delle reliquie, e infine al 9 e al 10 dello stesso mese a ricordo del loro ingresso nella chiesa del Salvatore. Quest’ultima festa induce a sospettare che il culto abbia trasfigurato uno precedente, precristiano, a una grande dea, tant’è vero che inspiegabilmente, la sera del 9, le autorità insieme con alcune bambine dette Verginelle si recano nella chiesa offrendo alla santa su un vassoio d’argento addirittura oro, incenso e mirra! A Palermo invece la devozione per santa Cristina è tramontata con la nascita del culto di santa Rosalia a partire dal Seicento.

Santa Cristina, che è anche patrona di Gallipoli, è diventata protettrice contro il morso delle serpi velenose – altro indizio di una trasfigurazione di attributi precristiani – e contro le malattie dello stomaco. Come san Sebastiano frecciato è stata eletta patrona degli arcieri e dei balestrieri pur essendone vittima, dei marinai perché non annegò ma camminò sulle acque; e infine dei mugnai perché secondo la tradizione la pietra di cui parla la Passio sarebbe stata una macina da mulino.

Nel suo santuario di Bolsena – composto di tre chiese e della grotta, straordinario museo per il sovrapporsi di opere d’arte dall’epoca precristiana al Settecento – si conserva la sua iconografia tradizionale che si ripete anche altrove, come ha documentato Moscini nel saggio citato. La prima immagine che accoglie il visitatore è una terracotta invetriata, bianca e celeste, sulla lunetta del portale mediano della basilica, opera di Benedetto Buglioni, che aveva lavorato nelle botteghe di Luca della Robbia e risentiva anche dell’influsso del Verrocchio: Cristina accanto alla Madonna regge fra le mani la pietra del martirio a forma di macina. L’attributo si ripete all’interno della chiesa romanica a croce latina in un affresco del 1459 di un pittore locale ispirato alla scuola senese, e soprattutto in quello cinquecentesco della cappella del Santissimo Sacramento, attribuito a Giovanfrancesco d’Avanzarano, un pittore influenzato dalla scuola umbra, dove Cristina è raffigurata in una dolcissima figura di giovinetta dai capelli biondi e dagli occhioni spalancati che sopra la pietra mostra con una mano il Vangelo e con l’altra regge la freccia che l’ha trafitta. L’immagine meno consueta, oltre a quella sulla predella del ciborio ceramico nella cappella di San Michele presso la grotta, dove sono illustrati alcuni episodi del martirio con la santa discinta come un’odalisca, è una scultura di Benedetto Buglioni, dipinta una volta a tempera: la celebre Cristina morta che non è inferiore per bellezza alla Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia. Ora è sistemata nella grotta su un troppo alto basamento ottocentesco mentre precedentemente era nell’arcosolio sotto il ciborio: raffigura Cristina nel sereno abbandono della morte con la macina al collo e le braccia in croce sull’addome, dov’è conficcata la freccia. Accanto a questa scultura si celebra ogni anno, nel tardo pomeriggio, la messa della vigilia nella grotta profumata di fiori, qualche ora prima che cominci la processione dei «Misteri».

Una volta durante la festa di santa Cristina si correvano anche due palii, l’uno per cavalli barberi, l’altro per barche. In quei giorni si vendevano per devozione le impronte dei piedi di santa Cristina in feltro o in carta, ricavate dalla leggendaria pietra basaltica del martirio incorporata nell’altare del Miracolo del Corpus Domini; oppure l’acqua che vi trasudava. Un’altra tradizione ormai perduta era il trasporto dei ceri durante la processione: macchine di legno scolpito e decorato, arricchite da fiaccole e di tali dimensioni da essere portate a spalla da più uomini che le tenevano in equilibrio con corde.